mercoledì 1 luglio 2020

Rutor: un weekend della Madonna



Le premesse per un grande weekend c’erano tutte: c’era la voglia di alzare un po’ l’asticella, di fare un ghiacciaio, ma soprattutto la voglia di passare due giorni insieme.  Gente che già dal martedì precedente aveva pronto lo zaino; gente che da un po’ non cammina ma non si vuole fare scappare l’occasione; neofiti carichi a molla, di un entusiasmo quasi molesto; chat allegrotte nei giorni precedenti.
Al weekend sono presenti Ari e Ste, Paolino, Ernesto, Fede, Luca, Danielo, Fra Navoni, Brusa, Loris e Clarame.

Ci si trova sabato alle 12 a La Thuile, mangiamo al volo e saliamo carichi come muli i 1000mt di dislivello che ci separano dal Rifugio Defeyes. 
Nello zaino ci sono cose alle quali non siamo abituati: mascherine e sacchi a pelo. Il rifugista ci ha avvisato che sono necessari, perché le norme anti-covid sono arrivate anche lì.
Mentre saliamo penso che sono contenta di essere lì, che quel momento l’ho aspettato tanto. Sono 2 anni che sogno di mettere piede su un ghiacciaio e di fare una cordata, in mezzo ci si è infilato di tutto: un fallimento al Petit Mont-Blanc (c’è un articolo che lo racconta), una promessa nell’estate 2019 di portarmi sul Castore di Marta e Loris, che però si sono scoperti incinti e quindi impossibilitati alla missione.  Ma ora lo so: stavolta è quella buona. Figuratevi che parto pensando già che vorrei scrivere questo articolo, ho perfino in mente un po’ cosa vorrei esprimere della mia prima volta su un ghiacciaio. Raccontare dei desideri che si realizzano.

Ma mentre saliamo ad un certo punto inizio a non stare bene, maledetto ciclo, prendo un antidolorifico e sdolorante riesco a salire. Arrivati al Defeyes dopo 3 ore ci accoglie Sergio il rifugista e per iniziare ci dice “Mi avete detto che vi comporterete come un gruppo, per me è come se foste una famiglia”. Mi sorride un po’ il cuore per quell’espressione, non sono l’unica a coglierla: in fondo si, siamo contenti di essere considerati una strana e improbabile famiglia.

I gemelli Cambiaghi si sono ricordati che quella poteva essere anche l’occasione giusta per festeggiare Fra Navoni, che tra un mesetto diventerà papà, e allora gli hanno portato una maglietta, una bavaglietta e un elefantino da portare il giorno dopo in cima al Rutor. Che magari sia di buon auspicio perché anche Cecilia, un giorno, sogni alte vette ed avventure!



Prendiamo la birra di rito ai tavoli esterni del rifugio, facciamo un po’ di ripasso manovre, per me una vera e propria prima lezione. Scopro uno Ste Riva maestro esemplare, che il corpo morto pesa pochi etti (io me l’ero sempre immaginato tipo una zavorra di piombo), e anche che non è che proprio tutti si ricordino a mena dito le manovre e i nodi. Il massimo del risultato che riesco ad ottenere è imparare a fare il nodo barcaiolo, che ripeto autisticamente per tutta le cena a tavola.


Quasi tutti andiamo verso una chiesetta poco lontana, dalla quale si vedono altri laghi e si cerca di intuire il percorso del giorno dopo. Quella chiesetta, appoggiata lì su quel masso, buono per salirci in aderenza, è dedicata a S.Grato. Anche se probabilmente il fu Grato ha fatto ben altro per cui è stato santificato, a me piace pensare che sia un richiamo alla gratitudine, al vivere le cose belle, ma anche a sapere che riconoscerle e ritenersi fortunati per averle vissute; che a volte è più importante delle cose stesse!


La cena viene introdotta dal primo suono di corno della stagione del rifugio e dal un cuoco che vuole a tutti i costi girare un video con un brindisi a noi, definiti letteralmente “prima spedizione della stagione sul rutor”. Ma ci mette giusto che 7 tentativi per realizzare un video che dovrebbe apparire spontaneo.
A cena mangio troppo per l’appetito che ho e inizio a capire che sarà difficile digerire quella cena. Fede mi costruisce il mio cordino da ghiacciaio. Sapere che domani mi legherò a lei e al Brusa mi dà la consapevolezza che il massimo contributo che potrò dare alla cordata è non fare cavolate.
Il rifugista dopo averci spiegato con molta cura l’itinerario che ci consiglia per il giorno dopo preannuncia anche che ha una “missione da uomini duri” per il giorno  successivo al ritorno dal Rutor: aiutarlo a sistemare la turbina che si è rotta qualche giorno prima e che in due non sono riusciti a sistemare.
Ernesto, fa i conti con le proprie forza dopo la salita, e decide che passa per il giorno dopo e che farà un altro giro. Certe volte rinunciare è prova di grande saggezza.

Dopo cena usciamo per andare dietro al rifugio a goderci un quasi-tramonto spettacolare. Scattiamo foto a raffica, verso il Bianco, verso tutta quella bellezza lì intorno, ma nessuna rende l’idea. Ci riempiamo gli occhi di meraviglia. Ognuno gode di quella bellezza che forse qualche pensiero in più nella testa lo fa venire. Io penso a S.Grato e anche un po’ a S.Desiderio, guardo i miei amici e cerco di indovinare i loro pensieri. Tra i miei però si affaccia anche un “missà che non ho digerito”.

La notte me ne darà conferma: capisco che non sto bene, nella testa iniziano ad affacciarsi delle auto-maledizioni per il fatto di non stare bene, ad un certo punto capisco che quella cena non la digerirò mai e nel bagno del rifugio la vomito tutta. Mi sento meglio, ma so bene che sono senza niente nello stomaco, che dormirò al massimo 3 orette prima della sveglia alle 2.50 e che quelle non sono le condizioni migliori per affrontare la mia prima salita su ghiacciaio, anche perché me l’hanno detto in tutte le salse “non è difficile, ma è lunga arrivare al Rutor”.

Al momento della sveglia avviso i miei compagni di cordata, Fede e Brusa, che non sono stata bene, ma che vorrei comunque provare. A colazione provo a far scorta di zuccheri in ogni modo sperando che mi rimangano nello stomaco.
Parto grazie ad un unico pensiero in testa: so di poter rinunciare. Se mi fossi detta che per forza dovevo arrivare in cima, che o la cima o niente, ecco bhè non avrei potuto farcela, il mio corpo e forse anche un po’ la mia testa, si sarebbero ribellati. Non sarei mai riuscita a partire dal rifugio.
Ammettere davanti agli altri di non essere stata bene, di non avere molta forza, di non essere certa che ce la farò, è ben più dura di mettere un passo davanti all’altro. Mentalmente mi metto delle tappe: tappa 1, cammino la prima ora prima del ghiacciaio e se sono cotta torno indietro da sola tanto è sentiero e lo posso fare e non condiziono la cordata; tappa 2: il plateaux almeno mi godo la vista della cima, da lì posso slegarmi, lasciare comunque salire gli altri e aspettarlì lì per rientrare. Partire, sapendo magari di non arrivare, è l’unica strategia che posso concedermi.

Camminare alle 4 di notte alla luce delle nostre frontali è meraviglioso. Anche se dobbiamo tenere un passo svelto non posso non pensare che sia uno scenario favoloso, un’esperienza che non tutti hanno la fortuna almeno una volta nella vita di vivere.  Andando un po’ alla ricerca troviamo il sentiero per l’attacco del ghiacciaio.
Ci si imbraga, si fanno nodi a palla, ci si mette i ramponi e si parte. Le 4 cordate sono: Loris-Luca-Fra (con Loris che carico a molla tirerà parecchio il ritmo), Brusa-Clarame-Fede (2 santi e una neofita), Paolino-Danielo (orfani di Ernesto), SteRiva-Ari (che nel dopo quarantena hanno già fatto anche il Cassandra e sono informissima).


Nella salita mettiamo in scena anche il raccomandatissimo da ogni scuola di alpinismo “gran premio delle cordate”: 4 cordate una di fianco all’altra. Non esistono appositamente foto dell’accaduto.
La mia amichetta Fede instancabilmente mi dice “tieni la corda tesa”, “tieni il cordino da ghiacciaio in mano” e anche “non ramponare la corda”. Vede, come altri che mi si affiancano, che non sono al top della forma, che sto faticando. Per fortuna ad una sosta mi convinco a prendere un gellino superconcentrato, e sarà l’effetto placebo, sarà la caffeina che contiene, mi sento un po’ meglio. 
Mi ricordo di quello che Brusa mi ha detto mentre montavamo la cordata “Non è obbligatorio arrivare in cima”. Penso di arrivare al plateaux e decidere come mi sento. Sono quasi convinta che tornerò indietro, inizio a mezza voce a dirlo agli altri. Daniele mi sente, e dopo aver detto alla mia cordata di rallentare perchè sto sforzandomi di tenere un passo non mio, mi dice “ma va là, piano piano arrivi in cima”.



Brusa mi convince a salire ancora un po’ e a decidere da più sopra. Arrivati nella piana mi sento meglio, appena prima che venga un whiteout che ci permette di proseguire solo seguendo la traccia di una cordata salita poco prima di noi. Quando le nubi si dissolvono ho una vista, forse una visione: la cima del Rutor con la sua Madonna e la cresta per raggiungerli. L’adrenalina fa il resto: ho visto l’obiettivo, mi sparo un altro gellino e so che salirò.
Quando con la testa lo realizzo, dagli occhi mi esce l’emozione e mi commuovo. Per fortuna nelle cordate bisogna stare a distanza, non mi faccio notare dagli altri. Il pensiero è che ce la potrò fare perché ho ammesso a me stessa di poter fallire, che una cosa così bella (anche se come mi dicono sempre i miei compagni “sono salita con le mie gambe”) la posso fare solo perché ho degli amici così che hanno il gusto di portare altri ad alzare l’asticella, di fare cose belle insieme!
Prendiamo un bel passo e la nostra cordata sarà la prima ad arrivare in vetta, dopo una bella ma facile cresta, che ci fa pregustare la cima. Arrivano tutti, fa parecchio freddo e scattiamo veloci la foto di vetta.



Dani la sera prima ci aveva detto che sentiva di avere una grazia di cui ringraziare la Madonna, lo fa a modo suo “innaffiandola”, ma giura di aver sentito la statua dirglielo, con il tipo accento slavo da Madonna di Madjugorie.
La prima a scendere è Speedy-Gonzalez-Ari che ripercorre la cresta in 15 secondi netti per sfuggire dal freddo, con uno Ste impegnatissimo a tenerle il passo. Seguiamo tutti e faccia a valle ci godiamo lo spettacolo del plateaux di neve, il fatto di essere praticamente solo noi in quella meraviglia, ma anche di esserci insieme!
E’ il momento in cui ciascuno a modo suo tira fuori le emozioni. Danielo nella modalità urli di gioia, io con dei “che bello e che meraviglia” ai limiti del molesto, Fede sottolineando come un paesaggio così sia bellissimo, Fra minacciando di abbandonare Luchino all’ennesimo “dai che si apre” con il quale l’aveva lungamente tediato durante la salita, Loris con delle foto da poser che tutti gli invidiamo di sapersi fare.
Scendendo c’è anche il momento di ricordare una frase di Luigini Arioldi dei Ragni di Lecco “Non c’è niente di più bello che andare in montagna con gli amici”.

Arriviamo al rifugio in tempissimo per il pranzo. Sergio il rifugista ci dice di averci seguito con il binocolo durante la salita. Pranziamo, brindiamo e inizia ad affacciarsi il pensiero della turbina, che abbiamo promesso di andare a sistemare, e che pare essere collocata a svariati metri di dislivello positivo dal rifugio.
Ma la Mula non si tira indietro e così gli uomini (di loro il rifugista aveva espressamente chiesto e per sta volta io, Fede ed Ari, approfittiamo di un sessismo che gioca a nostro favore) salgono a sistemare la turbina, a stomaco pieno e non senza un po’ di comprensibile fatica.
FraNavoni e Ste rimangono alla base nella tipico ruolo dell’umarel che commenta il cantiere, per poi tramutarsi nei vecchietti del cicchetto non appena compare la grappa di ringraziamento per la missione.
Grazie a questo piccolo aiuto torna l’elettricità in rifugio, e quindi la luce, l’acqua calda, e la spillatrice delle birre: direi non poco!
Ci organizziamo per la discesa, gli zaini sembrano essere diventati ben più pesanti del giorno prima, e torniamo alle macchine. Durante la discesa è tempo di chiacchiere, di racconti, di grazie e anche di incontri stravaganti. Ari e Danielo incontrano una finta-svenuta francofona non troppo in forma, che complice una slogatura si stava facendo portare a spalla dal marito. Io e Luca quasi ci perdiamo. Paolino decide di correre giù dal sentiero e trascina il gruppo di testa.
Al parcheggio c’è ancora voglia di stare insieme, di prenderci in giro, di ricordare quello che abbiamo fatto.
Mi ci è voluto qualche giorno in più del solito per scrivere questo articolo, che non era quello che avevo in mente prima della partenza, sono tornata con delle emozioni diverse da quelle che mi aspettavo. Ho dovuto far decantare un po’ le emozioni, capire cosa era successo, capacitarmi del fatto che delle vette non mi importi molto, delle persone con cui salgo praticamente tutto!! E che non è stata una lunga e gloriosa cavalcata verso la cima, ma piuttosto un costante ammettere che potevo non farcela. Solo così alla fine, sono anche arrivata in cima. Non me l’aspettavo e non so farlo bene, ma forse è di questo che devo ringraziare S.Grato per questo weekend!

Clara

Viva la Mula
Viva gli amici
Viva i ghiacciai
Viva le prime volte 
Sempre viva il presidente
#lamulanonsitiraindietro
#lamulaèfamiglia
#lamulasiamonoi


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